Pagina 4 di 9 MONOGRAFIA DI VARIE SPECIE Del Parnasso Non sente la montagna chi non sente questa farfalla, simbolo dell'Alpi... Segantini pittore fu compagno intimo del Parnasso. Tutta l'arte del maestro non è che la montagna intravista dall'ala trasparente... Voi sorridete, incredula, scorrendo l'ali chiare. Passate sui Papili, le Pieridi, le Coliadi, l'Antocari, cercate invano, sorridendo muta. Ma il vostro riso incredulo s'arresta, sostate appena sopra una farfalla ignota e dite risoluta: - È questa! - Questa e non altra. Tolgo l'esemplare: osservate la grazia! Col Papilio e la Vanessa, è certo la farfalla dei nostri climi più meravigliosa. Ma pure al vostro sguardo di novizia non è questa bellezza singolare? Mentre pensate il volo del Papilio sul trifoglio fiorito e la Vanessa in larghe rote lente sulle ajole, non tollerate il volo del Parnasso in un campo, in un orto, in un giardino: evocate un pendio di rododendri, coronato d'abeti, e di nevai, e la bella farfalla ecco s'adagia sullo scenario, in armonia perfetta. È giusto. Meditate l'ali tonde (frastagli e dentature le sarebbero d'impaccio contro i venti delle alture) meditate quest'ali trasparenti, lastre di ghiaccio lucide all'esterno, nell'interno soffuse di nevischio, gelide in vista tanto che vi sembra di vederle squagliare a poco a poco; spiccano sul candore alcune chiazze vermiglie come fior di rododendro, come stille di sangue sulla neve, cerchiano l'ali zone bigio-nere che tengono del musco e del macigno: il corsaletto è fitto di pelurie bianca, d'argento come il leontopodi e l'antenne le zampe la proboscide n'escono brevi come dalla giubba folta d'un alpigiano freddoloso. La Natura, l'esteta insuperabile, la mima senza pari, volle esprimere la montagna in un essere dell'aria; si giovò della gamma circostante, diede l'ali alla neve ed al ghiacciaio, al macigno al lichene al rododendro; ma da quanti millenni, ma da quali misteri giunse il genïetto alato? In altra età, per certo, quando l'Alpi erano miti come Taprobane, la farfalla aveva l'abito conforme con le felci i palmizi l'orchidee dei nostri monti in quell'età remote. Com'era allora il genïetto? Certo non trasparente, candido, villoso... Voi contemplate, amica, la farfalla infissa da molt'anni. Ben più dolce è meditarla viva nel suo regno. La rivedo con gioia ad ogni estate; sfuggito all'afa cittadina, appena giunto al rifugio sospirato, indago con occhi inquieti lo scenario alpestre: senza l'ospite candida le nevi sarebbero per me senza commento. Ma rade volte scende a valle. Giova attenderla sull'orlo degli abissi, fra gli alti cardi i tassi i rododendri. In quel silenzio primo, intatto come quando non era l'uomo ed il dolore, ecco la bella principessa alpestre! Giunge dall'alto scende con un volo solenne e stanco, noto all'entomologo, s'arresta sulle cuspidi dei cardi, s'adonta di un erebia, d'un virgaurea, suoi commensali sullo stesso fiore; s'avvia, s'innalza, saggia il vento, scende, vibra, si libra, s'equilibra, esplora l'abisso, cade lungo le pareti vertiginose ad ali tese: morta. Dispare, appare sui macigni opposti, dispare sul candore delle spume, appare sopra il verde degli abeti, dispare sul candore dei nevai, appare, spare, minima... Si perde... Parnasso Apollo!... Il genïetto lascia un solco di mistero al suo passaggio. Il volo stanco, ritmico, diverso dall'aliar plebeo delle pieridi, ha un che di malinconico e s'accorda mirabilmente con la gamma chiara dell'alte solitudini montane. E il poeta disteso sull'abisso, col mento chiuso tra le palme, oblia la pagina crudele di sofismi, segue con occhi estatici il Parnasso e bene intende il sorgere dei miti nei primi giorni dell'umanità; pensa una principessa delle nevi volta in farfalla per un malefizio...
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