Il merito dei buoni risultati sui conti pubblici non è
né di Prodi né di Berlusconi ma degli imprenditori e dei lavoratori
delle aziende private. I conti vanno bene perché c’è stato un boom
inaspettato nelle entrate fiscali, ma le entrate crescono solo se le
aziende vendono, guadagnano, assumono nuovi lavoratori e fanno fare più
ore a quelli che già impiegavano. Se l’economia non cresce lo Stato può
alzare le aliquote quanto vuole, ma il gettito non aumenterà.
Anche l’evasione scende quando le aziende guadagnano, perché
rischiare un accertamento diventa inutilmente pericoloso. (In verità i
conti del 2006 sono andati bene anche perché la spesa—tranne gli
stipendi dei pubblici dipendenti, che hanno continuato a correre più di
quelli dei privati — è cresciuta meno di quanto si temesse. Questo è
merito di un’intelligente intuizione di Giulio Tremonti. Dallo scorso
anno le amministrazioni pubbliche possono spendere, ogni mese, fino a
un dodicesimo del loro budget annuale. Ma se spendono di meno — qui è
la novità — i fondi risparmiati non sono più spendibili. In passato la
lentezza, e anche la pigrizia, delle amministrazioni lasciava che i
fondi si accumulassero, per poi spenderli, spesso in modo dissennato,
alla fine dell’anno).
Il clima nelle imprese è mutato perché nei 6-7 anni passati
(da quando c’è l’euro) gli imprenditori hanno radicalmente trasformato
l’organizzazione delle loro aziende, e non solo Fiat, che pure è parte
importante della nostra ripresa. Due anni fa, quando l’euro salì fino a
1,34 dollari, incontravo molti imprenditori che dicevano di essere
vicini al punto di resistenza: oltre 1,35 non avrebbero più esportato e
avrebbero cominciato a chiudere alcuni impianti. Oggi, con un cambio
tornato vicino a quel livello, sono meno inquieti: il punto di
resistenza si è spostato ben oltre 1,40. Sono anche meno preoccupati
dalla concorrenza cinese. Mi diceva un imprenditore vicentino: nella
mia azienda il lavoro è ormai meno del 15% dei costi totali. I miei
operai—a parte che sono bravissimi — possono costare anche dieci volte
più degli operai cinesi, non è per questo che smetterò di vendere.
All’inizio le aziende si sono ristrutturate spostando le produzioni a
minor valore aggiunto in Paesi con costi del lavoro più bassi: Romania,
Slovenia, Repubblica Ceca, molti anche in India e in Cina. Che ciò
avvenisse lo si vedeva nei dati sugli investimenti: le imprese
acquistavano e costruivano fabbriche all’estero, mentre in Italia gli
investimenti rimanevano sostanzialmente fermi. È accaduto anche in
Germania: lì addirittura, mentre i bilanci delle aziende facevano
faville, gli investimenti interni cadevano del 2% l’anno. Oggi il ciclo
della delocalizzazione si è chiuso e le aziende hanno ricominciato a
investire in casa. Nel 2006 gli investimenti tedeschi sono saltati da
-2% a +4,5% e in Italia a +3,3%. (E ciò è avvenuto in un periodo
durante il quale la Banca centrale europea ha alzato i tassi ben sette
volte, segno che la convenienza a investire è particolarmente forte).
Con gli investimenti sono riprese anche le assunzioni,
e con i posti di lavoro hanno ricominciato a crescere i consumi. Poiché
io non credo nelle proprietà taumaturgiche della «politica industriale
», ciò che il governo dovrebbe soprattutto fare è cercare di non fare
danni. La vicenda Abertis-Autostrade ha fatto più danni alla
possibilità di attrarre nuovi investimenti dall’estero di 10 cortei di
operai in sciopero, che peraltro non si vedono. Né aiuta proteggere le
aziende pubbliche locali, i cui prezzi volano in Borsa almeno tanto
quanto i prezzi dell’energia che esse vendono alle imprese.