il valore legale del titolo di studio... leggere e riflettere
articolo di Angelo Panebianco da www.corriere.it
Forse bisognerebbe scavare più a fondo di quanto in genere non
si faccia quando ci si interroga sul perché sia così difficile per i
governi italiani, di destra o di sinistra, fare riforme incisive a
favore della concorrenza. Quelle mancate riforme, dopotutto,
contribuiscono a spiegare due decenni di bassa crescita (in un’epoca
di grande espansione dell’economia internazionale) e sappiamo che, se
non si faranno, anche la ripresa potrebbe risultare difficile e
stentata una volta superata la crisi mondiale. Ma, forse, quelle
riforme sono rese estremamente difficili dal fatto che, se attuate,
potrebbero destabilizzare la democrazia italiana e, persino, mettere
a rischio la stessa unità del Paese. Insomma, c’è probabilmente
qualcosa di più, dietro alle riforme mancate, della resistenza delle
solite lobbies.
Sul Corriere del 28 giugno scorso Mario Monti ha
elencato i settori che dovrebbero essere interessati dall’azione
riformista: «... la riduzione strutturale della spesa pubblica
corrente, anche attraverso la riforma delle pensioni, la formazione
del capitale umano, le infrastrutture, una maggiore concorrenza per
aprire i mercati e ridurre le rendite, la liberalizzazione dei
servizi e specialmente dei servizi pubblici locali». Effettivamente,
sappiamo che sono quelle le riforme che servirebbero per dare un nuovo
slancio all’economia italiana e metterla in condizione di sfruttare al
meglio le occasioni che le si presenteranno quando la crisi mondiale
finirà. Ciò che invece non sappiamo, ciò che è più difficile
prevedere, è quali sconvolgimenti sociali potrebbero derivare da
radicali interventi riformatori in tutti quei settori.
Nonostante la tradizionale turbolenza della nostra vita
politica, la società italiana, nel corso dei decenni, sembra essersi
ben adattata a vivere in condizioni di bassa crescita. Al punto che la
perpetuazione dei suoi equilibri, sociali e territoriali, pare
dipendere ormai proprio dall’assenza di incisive riforme
liberalizzatrici in una serie di settori strategici. In altri termini,
secondo questa ipotesi, ciò che obbliga da decenni l’economia italiana
a funzionare a basso regime è anche ciò che assicura al Paese
condizioni di stabilità sociale e territoriale. In queste condizioni,
tentare di dare molta più potenza alla macchina richiederebbe
modificazioni drastiche e subitanee di radicatissime abitudini
sociali, la messa in discussione di equilibri consolidati, la
penalizzazione (almeno a breve termine) di vaste aree territoriali
oggi garantite dalle rendite, grandi, piccole, e anche piccolissime,
assicurate dai mercati protetti. Con conseguenze, sociali e politiche,
assai poco prevedibili.
Una delle ragioni, forse la più importante, per cui la società
italiana risente oggi meno di altre degli effetti della crisi
mondiale, è dovuta proprio alla presenza di quei fattori che ne hanno
frenato la crescita nei decenni precedenti. Dipende dal fatto che,
accanto al welfare «ufficiale», quello gestito dallo stato, c’è anche
un esteso welfare «occulto» che tutela tante famiglie italiane a vari
livelli di reddito. Ci sono protezioni e fringe benefits assicurati ai
tanti dalle innumerevoli corporazioni, le rendite garantite dalla spesa
pubblica (sprechi inclusi), i benefici assicurati ai singoli
dall’economia sommersa. Non casualmente, a soffrire di più a causa
della crisi sono fino ad oggi quei settori della piccola impresa e del
commercio (come ha osservato Dario Di Vico sul Corriere del 2 luglio)
che sono tra i pochi davvero esposti alla concorrenza di mercato.
Dall’elenco di Monti estraggo il caso che conosco meglio, quello
della formazione del capitale umano. E’ la questione dell’istruzione.
Sarebbe auspicabile una riforma meritocratica dell’Università
(Francesco Giavazzi, su questo giornale, 3 luglio) e della scuola in
generale. Ed è vero che il ministro Gelmini è sinceramente interessato
a farla. Ma potrà mai il Parlamento (nelle sue componenti di destra e
di sinistra) consentire davvero incisive riforme meritocratiche nel
settore dell’istruzione? Ne dubito. E non certo a causa della
resistenza di qualche «barone» o di qualche preside di liceo. A causa
del fatto, piuttosto, che verrebbero scossi equilibri territoriali,
locali, consolidati.
Prendiamo il caso dell’Università. In Italia ci sono centri
universitari ottimi, centri universitari così così e centri
universitari pessimi. Questi ultimi godono di esteso sostegno e di
granitiche complicità nelle comunità territoriali di appartenenza. Una
riforma meritocratica (che, se fosse davvero tale, dirotterebbe i
finanziamenti sui centri e i ricercatori migliori) li metterebbe in
ginocchio. E che cosa credete che accadrebbe? Quei pessimi centri
universitari sono pur sempre erogatori di stipendi e rendite, e grazie
ad essi vive anche un esteso indotto cittadino. Inoltre, essi contano
sulla complicità delle famiglie le quali, pagando tasse basse,
assicurano comunque ai propri figli diplomi dotati di valore legale. Ci
sarebbero probabilmente rivolte in stile Reggio Calabria 1970. I
sindaci, i sindacati, i deputati locali (di destra e di sinistra)
farebbero barriera in difesa del pessimo centro universitario
minacciato.
Ciò che vale per l’istruzione vale, credo, per tutti gli altri
settori che dovrebbero essere interessati da incisive riforme. In molti
casi, colpire la rendita può significare mettere a rischio o, per lo
meno, in grave sofferenza, anche i legami fra le diverse aree
territoriali del Paese. Ciò significa che non bisogna fare quegli
interventi riformatori? Bisogna farli di sicuro, a meno che non ci si
rassegni definitivamente all’idea che la democrazia italiana possa
reggere solo se si accettano bassi tassi di crescita (anche a crisi
superata) e forse, in prospettiva, un ulteriore impoverimento
complessivo. Ma bisogna anche individuare le strategie utili per
attutire gli inevitabili, probabilmente fortissimi, contraccolpi.
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